la qualità  della danza. dove si parla di fahrenheit 9-11

» abbiamo visto | 18 September 2004, 23:59 | ::

la lontananza, la distanza, la mancanza. la morte, il male. il barakus

la danza è un racconto, le performances sono narrazioni. una delle millemila forme della narratività  umana, come i romanzi, i miti, le leggende, i videogiochi, la lotta libera e la violenza di piazza.

Una meraviglia. Sinuosi corpi femminili, o sedicenti tali, si librano, disegnano traiettorie impensabili e raccontano la storia dell’uomo e di dio senza proferire parola, in un tripudio di braccine, gambette, rose rosse, sbadigli, mamme orgogliose e babbi plaudenti.

Fahrenheit 911 – Michael Moore, USA 2004

E’ un buon film, non è un capolavoro, ma è un gran bel film. se non ci fossero le elezioni a novembre probabilmente sarebbe stato un film migliore, ed è sorprendente. Il finale è sorprendente e sconvolge l’Uomo Giusto e ne scuote i millenari pregiudizi.
Non è un film, non è un documentario, almeno non se consideriamo il documentario “stile BBC”, metodo para-scientifico e statuto di verità  bellamente acquisito e dato per scontato. “E’ un pamphlet”, si è detto. “E’ uno spot anti-bush”, “è uno spot pro-kerry”, si è detto ancora. Vedremo.

Intanto, ormai esiste uno “stile Michael Moore”, con topoi e temi ricorrenti consolidati.

Fahrenheit911

il primo: Flint, Michigan. la città  natale di Moore: un luogo che non è un luogo, ne sono migliaia tutti insieme. Flint come Pomigliano d’Arco, come Sheffield, come Torino, Flint è tutti questi posti condensati, ridotti all’osso. Il non-luogo archetipico della deindustrializzazione, un posto scolpito nell’immaginario collettivo americano, scolpito talmente bene che a un certo punto si è cristallizzato in uno scenario di SimCity. Uno dei più complicati, tra l’altro*.
Flint è una costante figurativa dei lavori di Michael Moore, libri inclusi. Da Roger and Me a Fahrenheit le immagini di Flint non mancano mai.
La connotazione è chiara, quest’angolo di Michigan è il coacervo delle disfunzioni dell’impero e funge egregiamente da specchio deformante per la faccia pulita e asettica dell’America al cospetto dei mali del mondo.
Si parla di terrorismo, ed ecco, in “Downsize This!” una foto del palazzo distrutto da Timothy McVeigh mandato da chissà  chi a Okhlahoma City (si era nel 1996 e in quei tempi felici quello era IL terrorismo.) e una di un edificio dismesso di Flint. Sono perfettamente uguali. Si parla delle iniquità  della guerra e i reclutatori dell’esercito si aggirano per i sobborghi della citt? ad adescare giovani disoccupati.
la natura profondamente ingiusta della società  americana trova in Flint un affresco didascalico. Basta dare un’occhiata in giro in questo posto per rendersi conto di molte cose, senza bisogno di troppi discorsi.

[l’immagine dei potenti, dei ricchi e degli affaristi ridenti, rappresentati in pose e smorfie inumane opposte all’immagine dei poveri, neri, in lacrime, sofferenti è sicuramente un’immagine semplice, è vero. L’opposizione è sin troppo evidente, brechtiana, si direbbe se si avesse una qualche cognizione di Brecht tale da poter avvalorare un’affermazione di questo genere. ma purtroppo crogiolandosi nella CRASSA ignoranza, eh!]

Altra costante: lo statuto dell’attore Michael Moore all’interno del film.
Il Moore debraiato, quello che partecipa al film, ha un ruolo ambivalente: nella veste di voce fuori campo è narratore di una ricerca. Guida lo spettatore-narratario, gli racconta ciò che sa, in absentia. Quando compare, in presentia, diventa il “cercatore della verità “. Non più narratore, quando lo vediamo in carne ed ossa, Michael Moore è in una sorta di sincretismo cognitivo con il simulacro del narratario “alla ricerca della verità “ Gira, fa domande, ascolta assorto l’interlocutore e chiosa le sue parole con l’osservazione dell’uomo qualunque, quella che sembra la più naturale, quella che tutti faremmo. Un espediente narrativo piuttosto comune e pure un poco grossolano, ricorrente nei servizi di canale 5 e nelle riviste femminili.
In un caso è successivo alla ricerca nell’altro è sincronico, in progress.

La paura. Il tema della paura. Bowling For Comumbine non era un film contro il commercio di armi. Era una pellicola geniale che metteva in luce la sottile e devastante strategia della tensione messa in opera contro il popolo americano. Da parte di chi? Dell’amministrazione? Dei media? Di entrambi.
I criteri di notiziabilità , uniti alla ricerca ossessiva degli ascolti, producono roba come Studio Aperto e la Fox. Roba che può essere agevolmente exploitata e messa in condizione di occuparsi delle Killer Bees (o “Africanized Bees”), e diffondere il panico.
Questo senza tirare in ballo la malafede. Che pure è assodata nel caso dei ballot count in Florida, quando la Fox diede il là  al delirio che seguì la chiusura dei seggi.

Taluni hanno accusato Moore di essere una sorta di Gabibbo americano.
Magari. Se il gabibbo fosse come Michael Moore, io la sera non dovrei ogni volta litigare con i mentecatti che vivono qua dentro e prenderli a STIAFFI in faccia. Mi accomoderei in poltrona placido, tranquillo e in pace col mondo, con una gustosa Drina tra le labbra e mi godrei Striscia la Notizia.
Invece, purtroppo, le cose non vanno in questo modo. Perché Michael Moore non è neanche lontanamente paragonabile alla roba che vediamo sui nostri schermi.
Fahrenheit, come anche i precedenti lavori di MM, spazia nel continuum dei registri, INCLUSO quello gabibbesco. E’ vero, alle volte incespica negli stilemi classici della tv-spazzatura, i primissimi piani sui volti piangenti delle madri, la foto del ragazzo morto lasciata davanti a casa del pistolero Charlton Heston e via dicendo.
Ma si tratta di momenti incidentali.Lo stile Michael Moore non si basa certo su questo.
Altroché. Un piccolo capolavoro, ad esempio, sta nella rappresentazione dell’11 settembre che viene fatta in Fahrenheit. La scelta di una narrazione puramente sonora con schermo nero è un atto d’accusa nei confronti di tutti i gabibbi del mondo. L’abbiamo vista fino alla nausea quella scena, da tutte le angolazioni possibili e immaginabili, lo spazio per le narrazioni visive dell’11 settembre è finito. Su come sia stato utilizzato quello spazio ci sarebbe molto da riflettere, sulla nausea che ci coglie quando rivediamo quelle immagini per la milionesima volta consecutiva. Per ottenere di nuovo l’effetto desiderato, quello di sgomento, di terrore, è necessario chiudere una buona volta gli occhi e ricorrere al senso caldo per eccellenza. E ha funzionato. Non credo che il gabibbo ci sarebbe arrivato.
Come nella rappresentazione del presidente americano.**
Le chiose della voce fuori campo sono inutili? Sono superflue? Sono stucchevoli? Può darsi. Ma le immagini e le inquadrature che ritraggono Bush nelle pose più assurde e nelle circostanze più ridicole che mettono in luce, addirittura senza la necessità  di una voce narrante, “l’inadeguatezza” del personaggio sono merito del regista, come chiunque abbia una vaga idea di come si fa un film può facilmente immaginare. E allora? Semmai si può parlare di ridondanza, questo si. Ma la ridonadnza spesso e volentieri è un pregio, specie quando si ha a che fare con teste che viaggiano alla velocità  di oggi.

Le critiche serie da muovere a Moore, in realtà , sono ben altre e sono piuttosto pesanti. La principale è quella di razzismo.
Si ironizza sulla Coalition of the Willing e lo si fa pescando nel torbido degli stereotipi più banali e grossolani.

Il Costarica è un uomo seminudo su un carretto trainato da buoi, il Marocco sono delle scimmie che corrono, Palau degli indigeni che ballano, l’Islanda sono i soliti vichinghi con le corna su un veliero, la Romania è un vampiro che si alza dalla tomba e l’Olanda, ovviamente, uno che si fa un cannone.

michael

In Bowling for Columbine il nero è rappresentato sempre come l’altro. Si difende la popolazione nera, si accusa il governo di condurre una guerra contro gli afroamericani e di avere instillato nella popolazione bianca la paura dell’uomo nero, si mostra senza dubbio la natura PROFONDAMENTE razzista dello stato americano (che, tra l’altro, è sotto gli occhi di tutti. Basta guardare i dati sulle incarcerazioni per rendersi conto che negli USA la percentuale di neri in condizioni di detenzione è più alta di quelle del Sudafrica ai tempi dell’apartheid), la struttura della narrazione, tuttavia, è tale da non generare mai empatia col nero. Il nero è sempre altro, un altro che va compatito e difeso pur essendo, se non proprio in quanto, altro.
In Fahrenheit le opposizioni “cromatiche” sono ancora più evidenti.
I neri sono ancora una volta le vittime, nella fattispecie della coscrizione, ma nel momento in cui si vuole rappresentare l’assoluta purezza e l’indubitabile innocenza, opposte alle menzogne del potere, si ricorre puntualmente a immagini di uomini e donne bianche: Peace Fresno, le vecchine “antagoniste”, la madre piangente.

Tutto ciò è da imputarsi alle elezioni. Il lettore modello che Michael Moore si è costruito sono quei WASP indecisi o elettori di Bush, ragion per cui se ne è messa in scena la bieca visione del mondo. Sad but True ™.

prematura morale della favola (o mythos deloi oti)
Ebbene si. Una cosa qesto film la può dire alla sinistra di questo paese, oltre che ai parrucconi che storcono il naso: che bisogna smetterla una volta per tutte di guardare agli Stati Uniti come modello. E che i conflitti di interesse di Berlusconi sono veramente ridicoli al cospetto di quelli dei capoclan statunitensi.
E che, si, Berlusconi in America non sarebbe mai stato eletto presidente, ma solo perch? ? basso e pelato***.

Poi però c’è il finale.
Il film finisce con una citazione di George Orwell. E il finale è un altro piccolo capolavoro [o l’apoteosi della retorica. La dottrina si divide].
Si cambia di nuovo registro. Dal comico, al serioso, al patetico, adesso si tirano le somme. Siamo alla fine, l’ultimo minuto è la summa di tutto il resto, il registro, si direbbe, è solenne.
La voce di Moore pronuncia le frasi di Orwell, la musica in crescendo le sottolinea, le immagini, tutte già  viste nel corso della pellicola, in un richiamo cataforico, le attualizzano.
Il tutto intervallato da frammenti dei discorsi apocalittici e millenaristici di Bush che ancorano la citazione all’agghiacciante attualità  del presente. Vediamo in sequenza i ragazzi neri reclutati nell’esercito, le strade desolate di Flint, Osama Bin Laden coricato su un triclivio, Colin Powell, Condoleeza Rice e compagnia brutta, tutti allegri e sorridenti.

it’s not a matter of whether the war is not real or if it is. Victory is not possible. The war is not meant to be won, it is ment to be continuous. Hierarcical society is only possible on the basis of poverty and ignorance. This new version IS the past, and no different past can ever have existed. In principle the war effort is always planned to keep society on the brink of starvation. The war is waged by the ruling group against its own subjects and its object is not the victory over either Eurasia or Eastasia but to keep the very structure of society intact

Non credo che il gabibbo le direbbe queste cose. Credo che NESSUNO, nella televisione italiana direbbe queste cose. Non credo neanche che D’Alema, o Prodi, o John Kerry direbbero queste cose. Non credevo neanche che Michael Moore le avrebbe dette.
E, avete notato? Orwell scrisse 1984 per ispirare i reality show pensando all’URSS stalinista, ma le sue parole vengono citate sempre più spesso per descrivere ciò che capita nelle “democrazie occidentali”. E sembrano calzare proprio a pennello.

Sai, tu non devi sfottere un uomo che parla strano
Favorisca i documenti giovanotto
Non ne ho. Li ho dati tutti al benzinaio, chieda a lui.

When the sheep goes down
-Con la maglia ho caldo, senza ho freddo.
-Cazzo, un bel problema. Come avere un sistema senza un compilatore funzionante.
-No, no. Non avere il compilatore non è come avere la lana calda o la lana fredda, è come se non fossero mai esistite le pecore.

—- *=”L’unico modo di avere giustizia in questo mondo ? farci governare dall’algoritmo di SimCity. Compreso Godzilla

**=Presidente americano. Ricordate quando Saddam Hussein era ancora in sella e bisognava buttarlo giù? Nei tg e sui giornali ci si riferiva a “Saddam, il raiss di Baghdad”. “Raiss” all’incirca vuol dire “leader”, “capo”. Suonerebbe più o meno “George, il capo di Washington” o “Silvio, il leader di Roma”. Solo che così non l’ho mai sentito. E’ un po’ come quella gente che dà  del tu agli immigrati. Se un nero chiede informazioni gli si rivolge dandogli del tu, invece che del lei come farebbe normalmente. Ovviamente stiamo parlando di quelli che non li bruciano direttamente, i neri. O gli zingari. ***=ancora per poco.

commenti

  1. L'ha ponderato parecchio questo post, caro Ammiraglio, ma le devo fare i complimenti. Condivisibili TUTTE le Sue osservazioni. In particolar modo quelle sulla politica italiana. Aggiungo anzi che trovo stupefacente che D'Alema abbia la faccia di presentarsi alle convention democratiche (va detto insieme ad Epifani [sic!]). E quanto al sistema lobbistico e interessato di far politica all'americana il minimo che si possa dire Sir Francis Drake    27. September 2004, 09:17    #
  2. grazie sir francis.

    ho corretto.

    non sia mai detto.



    eh. —    27. September 2004, 10:38    #
  3. "grazziesignoregrazzie grazziesignoregrazzie grazziesignoregrazzie graaazzieeee". j    27. September 2004, 10:46    #
  4. Caro Rapper,

    e' da un p Gianpiero    28. September 2004, 01:37    #
  5. graaaaaaa-zieeeeeee j    28. September 2004, 11:40    #
  6. cazzo avevo scritto mille cose poi ho dimenticato l-email allora torna indietro e si — chiara    4. October 2004, 10:26    #
  7. io ho spaccato tipo dieci tastiere per fatti del genere. —    4. October 2004, 21:19    #
  8. io ho spaccato tipo nove tastiere per fatti del genere. —    4. October 2004, 21:24    #
  9. Per una volta mi va proprio. Un gran bell'episodio, caro Filosofo come ti chiamavo al Lyceum (solo io). Mi viene un piccolo dubbio sulle compagnie a cui ti accompagni in quella cucina senza telecomando, che a quanto dici ti obbligano a Sdruscia la novizia. Quando presente, visto che nello schermo non mi vedo, forse sono io il Gabibbo, in carne pelo e poliestere. Comunque. Gran bell'episodio, Filosofo. — Gabibba dislocata    11. October 2004, 17:00    #
  10. ovviamente le mie compagne cuciniere sono persone degnissime.

    enrico gessica chipperio    11. October 2004, 19:39    #
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