Il volto dell'uomo nero
» modern days | 17 October 2010, 05:45 | ::
Quest’uomo, già militante di Democrazia Proletaria, poi capoccia padano, poi capo della formazione paramilitare delle camicie verdi, è oggi il responsabile di rastrellamenti etnici, campi di concentramento per senza carte, marchiature di bambini e ultimamente di una demenziale operazione di controllo sociale che non nasconde altro che l’ennesimo piacere fatto agli amici banchieri, la cosiddetta tessera del tifoso.
La scorsa settimana questo individuo ha deliberatamente permesso che mille cetnici attraversassero tutta la padania (!) per arrivare a Genova, seminare il panico in città , entrare armati di tronchesi spranghe e bombe carta in uno stadio dove generalmente viene impedito anche ai bambini di portare le bandierine, interrompere una partita di pallone, propagandare nazionalismo e odio etnico e mettere in scena uno show a beneficio di televisione e giornali.
Il giorno dopo, con una faccia come il culo di proporzioni intergalattiche ha dichiarato che la più grande manifestazione dell’opposizione sociale al suo governo di ladri, prostitute, papponi, camorristi e faccendieri assortiti “sarà infiltrata da elementi violenti, anche stranieri”.
Un osservatore dotato di un minimo di lucidità affermerebbe che quest’uomo è un provocatore e sta prendendo per il culo il suo stesso paese. Altrove sarebbero state chieste le sue dimissioni, ma qui, questo aborto transgenico del comunismo modajolo degli anni settanta è libero di mettere in atto manovre oscure senza che a nessuno vengano dubbi.
Manovre oscure, perché il partito dell’uomo nero ha sempre nutrito grandi simpatie per l’ultranazionalismo serbo ed è in ottimi rapporti con i movimenti dell’ultradestra di Belgrado. I fascisti panserbi visti all’opera a Genova hanno avuto (e hanno, generalmente, in patria) lo stesso ruolo che ebbero nelle guerre di venti anni fa, sono il braccio armato di poteri molto più forti e lontani, che li usano per le agende politiche più disparate: allora quelli che volevano la disgregazione della Jugoslavia, oggi quelli che non vogliono la Serbia in Europa e quelli, come l’uomo nero, che hanno costruito le proprie fortune sul terrore per lo straniero e a cui un bell’invasore slavo fa sempre buon gioco. Ma soprattutto i simpatici mostri giunti dall’est hanno offerto delle bellissime immagini di scontri, vetrine sfondate e uomini in passamontagna giusto due giorni prima della manifestazione Fiom e l’uomo di merda nero non c’ha messo niente a provare ad attivare i migliori riflessi condizionati nell’opinione pubblica più narcotizzata del mondo.
Per sua sfortuna, una volta tanto, gli è andata male.
Un discorso a parte meritano questi cetnici del 2010. I 1300 giunti da oltre Trieste hanno dimostrato una volta di più quanto i serbi ci sappiano fare coi simboli. Saranno le miniature del monastero di Peć, la tradizione ortodossa per la sintesi iconografica, chi lo sa.
Fatto sta che Ivan Bogdanovic la sera del 14 ottobre era un vero capolavoro. Vestito completamente di nero, il corpo integralmente tatuato in cirillico, il 1389 della battaglia della Piana dei Merli a Kosovo Polije in grande rilievo sulle braccia, un teschio fiammegiante in petto, il passamontagna e il braccio teso a indicare il tre serbo avrebbero potuto farne la più sublime incarnazione iconografica del Male che l’Europa occidentale avrebbe conosciuto da quando Osama Bin Laden cavalcava nel deserto su un purosangue afgano bianco.
Avrebbe potuto, se non si fosse fatto prendere.
Il precedente illustre, per rimanere nel campo degli uomini neri, è ovviamente la costruzione dell’iconografia associata al comandante Arkan, la tigre, il capo delle milizie serbe di Bosnia durante la guerra del ’91-‘95, già ultrà della Stella Rossa. C’è ancora chi giura di averlo visto passeggiare tranquillamente per le strade bombardate di Vukovar con un cucciolo di tigre in braccio. E ha fatto il giro del mondo la fotografia di Arkan con una spada medievale in mano dopo il bombardamento Nato del più lussuoso albergo di Belgrado.
Il comandante Arkan era un finissimo conoscitore della comunicazione-guerriglia, oltre che della guerriglia e basta. Questo scaltro tagliagole costruì nel corso degli anni il mito di sé stesso in funzione della guerra etnica. Durante il conflitto serbo-croato-bosniaco era solito accompagnare i cronisti occidentali sui luoghi in cui i suoi miliziani compivano le peggiori efferatezze ai danni della popolazione civile. La pubblicità negativa che questi avrebbero riportato su giornali e televisioni si sarebbe rivelata utilissima per Arkan. Il messaggio era semplice: “Ecco, vedete quale trattamento riserviamo a chi incrocia la nostra strada”. Da quel momento, Arkan e i suoi aguzzini potevano anche risparmiare le energie, perché i racconti dei giornalisti occidentali sarebbero valsi più di dieci azioni reali, alimentando il feedback loop tra verità e invenzione che contribuisce all’instaurarsi di un mito. I profughi kosovari, per esempio, raccontavano ai giornalisti occidentali di aver visto le Tigri di Arkan strappare gli occhi ai neonati con le mani e mangiare il cuore delle loro vittime. Quando scoppiò la guerra tra la Nato e la Serbia, a Pristina si sparse la voce che stava arrivando Arkan. Addirittura l’inviato di Radio Radicale sostenne di avere avvistato il suo autista personale. La conseguenza fu l’accelerazione del fuggi fuggi generale degli albanesi. In realtà Arkan e i suoi non sono mai usciti dai confini della Serbia per tutta la durata del conflitto, e anzi, forse non hanno nemmeno mai lasciato Belgrado. Eppure sono stati numerosi gli avvistamenti e le segnalazioni in varie zone del teatro bellico. Non ci sarebbe da meravigliarsi se si scoprisse che è stato Arkan medesimo a spargere quelle voci. Pura comunicazione-guerriglia: assecondare e incentivare il terrore dell’avversario; dargli quello che si aspetta, ma moltiplicato per cento.
Finita la guerra, prima di finire trucidato da bande avverse nella hall dell’hotel Jugoslavija di sua stessa proprietà , Arkan ricercato in tutto il mondo per crimini di guerra, da perfetto genio del male postmoderno, sposò Ceca, cantante postumana di turbofolk composta per un terzo di carne umana, un terzo di silicone e uno di botulino.
Fatte le debite proporzioni Ivan Bogdanovic quel giorno è stato un degnissimo emulo del suo modello Arkan. I ruggenti anni ’90 della guerra etnica sono finiti, le platee sono più ristrette – il Male che incarna è stato buono solo per qualche giornale italiano di quart’ordine, ad esempio quello che vende più copie in assoluto, al cui direttore non deve essere parso vero avere delle bestie venute da fuori sulle quali riversare tutto lo schifo e l’odio possibile, quello che generalmente viene risparmiato alle bestie autoctone.
Se non che, a un certo punto l’hanno preso, probabilmente dando seguito ad accordi presi in precedenza. Gli zombi italioti in poltrona hanno avuto la loro sintesi catartica vedendo il corpulento invasore “zingaro” smascherato e in catene, ma l’iconografia della malvagità ha subito una perdita inestimabile quando da sotto al passamontagna è emersa quella faccetta da schiaffi da ragazzino troppo cresciuto tipica di molti serbi maschi.
(yeah, +stereotipi!)
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