i still hate d'alema

» modern days | 24 March 2009, 16:48 | ::

target e pure clinton, la albright e tutti i fine folks che il 24 marzo del 1999 iniziarono a bombardare la piu’ europea delle citta’ europee e non la smisero prima di aver distrutto tutto quanto di produttivo ci fosse nel raggio di cinquanta kilometri, oltre alle esistenze di qualche milione di uomini e donne, 78 giorni dopo.

Stamattina – a dieci anni di distanza – sulla città  bianca è risuonata la sirena di allora, a ricordare ai serbi il motivo per cui non possono girare liberamente in europa, il motivo per cui un pezzo del loro paese è governato da mafiosi e criminali di guerra, quello per cui un numero indefinito di essi (le statistiche sui profughi “cattivi” sono stranamente sempre difficili da reperire) è stato cacciato dalle proprie case e deve vivere nelle baracche o nelle enclave sotto la minaccia delle armi, e quello per cui moltissimi di loro, spesso i più brillanti, sono costretti a vivere all’estero.

Qua sotto trovate un racconto intitolato “Ex Yu”, di una ragazza serba di nome Milena che vive in Italia. Il racconto ha vinto non so quale premio letterario, e fu pubblicato a suo tempo dal vecchio burekeaters. E’ un testo che colpisce e commuove noialtri – che a un certo punto della vita siamo venuti a contatto a vario titolo con la defunta jugoslavia e i suoi abitanti, ma parla a tutti, perché racconta guerra e emigrazione da una prospettiva diversa rispetto a quella a cui ci hanno abituato i tempi infami che viviamo.

Ex Yu
(Milena Jankovic)

“Ex Yu” è una specie di epiteto usato molto spesso per descrivere tutto quello che aveva ed ha ancora a che fare con la Yugoslavia “che era una volta”, col paese in cui abitavo io quando ero piccola. Questa etichetta si applica alla musica dell’epoca, ai film, alla corrente di pensiero, agli stipendi di allora, all’architettura, alla politica, all’unico sistema economico nel mondo (cosiddetta “autogestione”), alla natura intatta, ai milioni di turisti, a tutto quello che fa l’immagine di un paese. Dunque, quando ero piccola tutto era etichettato con “Ex Yu”, tutto era finto, ma tutto funzionava bene, almeno per quelli che guardavano con disprezzo il capitalismo. La chiesa non c’era e in quel senso eravamo, direi, beati. I soldi c’erano sempre e dappertutto, normalmente tutti avevano lavoro, e tutti i tipi di assistenza sanitaria, sociale, etc. Le scuole erano buone, si imparava il russo, ma anche il tedesco, era importante sapere tutte e due le lingue: quella dei nostri amici, e quella dei nostri nemici. Si ascoltava tutta la musica che arrivava da fuori, ma esisteva anche la scena “Yu”, ed era bella e ricca. I film erano divertenti, molto umorismo, molte cazzate per distrarsi. La squadra nazionale di calcio era composta da quindici etnie diverse, ma si cantava l’inno chiaro e forte con la mano sul cuore.

Quando ero piccola i miei genitori lasciavano me e mio fratello davanti all’asilo alle 5:45, perché cominciavano a lavorare molto presto. Quando mio fratello cominciò ad andare a scuola doveva portare prima me all’asilo, ma non ci riusciva quasi mai perché anche io volevo andare a scuola. Così l’ultimo anno di asilo io andavo a scuola. La nostra scuola era un grande edificio in stile “realismo sociale”: tanto cemento, un po’ di vetro, una soluzione architettonica coraggiosa per la palestra, una mensa grande e schifosa e un cortile verde ed enorme con i campi da basket, calcio, tennis, minigolf, e così via. Io abitavo a venti metri dalla scuola, in un palazzo che non usciva fuori dai canoni della architettura comunista, in un appartamento che ci aveva lasciato mio nonno e che lui aveva ottenuto dopo un duro servizio militare di forse venti anni. Siccome non gli piaceva Belgrado e la vita in città , il nonno se n’era andato al mare, come tanti altri pensionati, a raccontare le storie di guerra in tranquillità  e in pace. I miei genitori andavano ogni settimana a Budapest e Vienna; a Budapest per curare mia madre e a Vienna per fare shopping. Si viaggiava sempre in macchina e si andava spesso al mare, in montagna, a Trieste, in Grecia, in Turchia, un po’ dappertutto. Mia madre parlava il russo, mio padre il tedesco ma non importava perché tutti parlavano Serbo.1 Io guardavo tutti gli sport che c’erano in TV, tifavo sempre per quelli che avevano le bandiere rosse, bianche e blu (come la bandiera della Yugoslavia), odiavo il giallo e il nero ma non mi piacevano neanche gli austriaci (ancora oggi tifo per i russi, i greci, ma pure per gli austriaci se giocano contro i tedeschi).

Ero in terza elementare quando morì mia nonna, l’unica vecchietta che mi fosse mai piaciuta, con la quale ho vissuto dai miei due anni fino all’asilo, insieme al nonno. La sua morte mi gettò in una tristezza profonda e insistente, sentita per la prima volta nella mia vita. Avevo otto anni e non capivo molto, ma capivo che era un dolore.

Un anno dopo, un filmato scioccante in TV – mi ricordo, proprio dopo il telegiornale – ci rivelò la verità  sul nostro paese. Girato di nascosto, diceva una voce narrante, il video mostrava alcuni generali dell’esercito jugoslavo parlare e fare dei progetti per un complotto. Non si capiva molto. Poi qualcuno venne ucciso sulla soglia della propria casa. Rimanemmo tutti senza fiato. Infine ancora grandi generali e delle frasi sconnesse ma decisamente cospiratorie, E pure la voce narrante lo sottolineava.

Yu era in procinto di diventare Ex.

Pochi mesi dopo, scoppiò la guerra, la mia classe a scuola diventò troppo grande a causa dei profughi. Loro non ci assomigliavano molto. Avevano accenti strani, vestiti sdruciti e occhi sempre pronti per piangere. Ero in quinta quando cominciai a fumare, marinare la scuola e fare tutto ciò che non si doveva fare. In sesta avevo un compito prima di andare a scuola: andavo a fare la fila davanti ai negozi di alimentari; il pane non c’era, e quando veniva era poco. Facevo la fila con le madri dei miei compagni di scuola e con i pensionati vicini di casa; la gente litigava e io provavo disgusto perché mi sembrava che avessero perso anche la dignità . Gli anni passavano e non cambiava niente. Carenza di tutto. Il degrado si vedeva e si sentiva dappertutto: urbano, culturale, onnipresente. Una cantante folk, con i capelli viola, “obicna seljanka”, una “cafona”, rozza e ignorante, diventò Ministro della cultura. Io piangevo e sentivo rabbia, mia zia era contenta perché quella lì aveva cantato al suo matrimonio venti anni prima.

Nessuno ci fece caso ma abitavamo già  in Ex Yu. Serbia e Montenegro, le uniche due repubbliche rimaste unite delle sei, portavano ancora il nome Jugoslavia, nome di cui non erano ormai più degne. Ora non si poteva più viaggiare all’estero, a causa della carenza di benzina e di passaporti rossi2, la musica faceva schifo, io vidi per la prima volta una pistola e un Kalashnikov, la vera bomba e la vera paura negli occhi della gente che ha perso tutto. Sentivo rabbia e avevo una strana sensazione che la vita non fosse sempre “fair”. Sull’autostrada vicino a casa mia c’erano chilometri di code. Ero adolescente e abitavo in un paese che ce l’aveva con tutto il mondo, oppure tutto il mondo ce l’aveva con noi, non l’avrei saputo mai, ma non mi importava più, ormai era finita per me.

In Serbia tutto diventò volubile e pericoloso, avere molto e non avere niente. Nel 1999 ci fu il bombardamento, e la Serbia, che era sempre in guerra ma mai nel suo territorio, fu colpita. Non si capiva più niente, neanche quando tutto finì. Ma prima di finire, il bombardamento ci rubò tre mesi della nostra vita. A me rubò tre mesi del mio diciottesimo anno, mi rubò l’acqua e la corrente, mi fece sentire depressa, mi fece conoscere i miei vicini di casa, mi fece perdere le speranze, mi mise la paura e l’ansia, mi fece riflettere e alla fine mi fece pure capire qualcosa. Vivevamo tutti da un giorno all’altro, alcuni come se fossero gli ultimi. Vivevamo senza domani, ma con tanta voglia di vivere.

Una volta finito il bombardamento io andai a cercare la mia fortuna a Cipro, ma non durai molto. Tornai a casa e trovai che niente era cambiato, finché non cadde Milosevic. Avevo allora diciannove anni e ero decisa a non vivere più in Serbia. Intanto nel paese c’era una grande protesta che chiedeva la destituzione di Milosevic: in un giorno due milioni di protestanti distrussero quello che il bombardamento e gli anni di crisi non erano riusciti a distruggere. Io non andai ad alzare la mia voce, non mi sembrava che sarebbe cambiato molto, ormai eravamo scesi troppo in basso. I miei amici mi detestavano per questo. Io detestavo la loro superficialità  e sopratutto detestavo “OTPOR“ (“La resistenza”) che era assolutamente “di moda”.

La rivoluzione non portò niente di buono. L’esercito arrestò Milosevic e io piangevo. Mi vergognavo di essere nata in un paese che aveva creato una persona come lui e mi vergognavo di essere nata in un paese che non godeva più di nessun rispetto. Odiavo la mentalità  di quel paese chiuso in se stesso, odiavo le armi e le divise, odiavo le case abusive, la musica serba degli anni ’90, la moda, l’assenza di cultura, la nostalgia di quelli che si ricordano ancora e ne parlano spesso, odiavo tutto ciò che portava il sapore dell Ex Yu.

Un giorno, di ritorno a casa in Jugoslavia, conobbi una donna che mi disse: “Non si chiama più così”. “Non ho capito” dissi io.
“Da ieri sichiama Serbia e Montenegro” rispose. “Ah, bene, allora è successo mentre ero in viaggio.. che strano..”
Sarebbe stato uno shock per tutti tranne che per i serbi, ormai abituati a non sapere da dove provengono e dove ritornano.

Questo è quello che io porto con me, che porterò tutta la vita, che è a volte inspiegabile, che spesso dimentico, che ricordo all’improvviso,che mi fa ridere oppure piangere senza una ragione visibile, questo è inevitabilmente una parte di me. Credo di essere nata in un posto sbagliato in tempo sbagliato. Appartengo a una generazione distrutta, metà  dei miei amici sono all’estero, altri sono morti di droga, colpi di pistole, incidenti, è rimasto poco degli amici e di quel paese devastato. Non c’è bisogno di rammaricarsi, non c’è neanche lo spazio e il tempo per farlo. Ma certe cose non riesci mai a digerirle, certe cose le dimentichi, certe ti svegliano dopo dieci anni una notte in un’altra parte del mondo, forse accanto a uno che non lo potrà mai immaginare.

E io oggi mi sveglio in una città  grande e decisamente bella, non tanto devastata come la mia, ma ugualmente trascurata. Mi sveglio come tutti i ventiseienni, non troppo presto, spesso in ritardo, e sempre con la testa piena di domande. Mi tormentano gli stessi problemi che tormentanoi miei coetanei, e magari qualcosa in più.

Per Natale non torno a casa, né per il capodanno, né per il mio compleanno.

1 esiste appunto il detto che dice: “Govori srpski da te ceo svet razume“ (parla serbo, che tutto il mondo ti capisce)

2 che in realtà  erano e sono ancora blu e portano ancora scritto Yugoslavia.

commenti

  1. e’ risuonata la sirena per ricordrci perche’ siamo ancora cosi’ tanto arrabiati con tutto il mondo!

    ps. Milena e’ andata via anche da qui, sta a New York adesso, tanto..

    — neki.bolji    24. March 2009, 20:55    #
  2. come biasimarla

    papuasia    24. March 2009, 23:03    #
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