Deutscher Herbst

» abbiamo visto | 29 December 2008, 00:30 | ::

Nel vostro circuito di filesharing preferito è arrivato Der Baader Meinhof komplex, pellicola sull’epopea della Rote Armee Fraktion, il gruppo armato con il logo più bello che si ricordi. Il regista è Uli Edel, già  noto per la trasposizione cinematografica di christiane f – i ragazzi dello zoo di berlino e il film, a quanto pare, ha suscitato polemiche in Germania perché ritenuto troppo simpatetico verso i terroristi.
DBMK disegna la parabola della RAF a partire dai fatti del 2 giugno 1967, quando una manifestazione di studenti contro lo Scià di Persia in visita a Berlino fu repressa nel sangue – in quell’occasione lo studente Benno Ohnesorg finì i suoi giorni con una pallottola in faccia – per concludersi con parole rivelatrici che imboccano allo spettatore la verità  ufficiale sul suicidio collettivo in carcere dei membri della RAF.

RAF In due ore di film ci sono più o meno tutti gli episodi e i personaggi salienti del decennio in questione, la regia è quella di un action movie vagamente hollywoodiano (è un dettaglio significativo, considerando che si tratta del primo film in assoluto sulla RAF) con ottime esplosioni, corse in macchina alla gioventù bruciata, sparatorie, tumulti di piazza, esecuzioni a sangue freddo, ottime esplosioni, fughe forsennate, ma soprattutto un bel po’ di ottime esplosioni. Detriti e frammenti umani compresi. Esplosioni, sì.

Considerando che la figura di Ulrike Meinhof, così come quella dei suoi compagni è – come si dice in questi casi – “piatta e bidimensionale”, le esplosioni sono effettivamente la parte migliore della pellicola (fatta eccezione, forse, per le donne della RAF: tutte meravigliose amazzoni teutoniche dedite alla distruzione dello stato). Il montaggio di ogni detonazione che sfuma nel ticchettio frenetico della macchina da scrivere e le parole di Ulrike, potenti e profonde come mai potrebbero essere quelle dei burocrati e politicanti suoi avversari, riassume il ruolo della Meinhof nell’organizzazione. Lei forniva la copertura ideologica, lei trovava le parole, lei aveva in corpo la rabbia e il talento necessari a sbattere in faccia all’opinione pubblica le ragioni ultime che producono edifici in fiamme, redazioni attaccate, banche svaligiate e (talvolta) corpi maciullati.

Armalite and typewriter strategy, verrebbe da dire all’amante della rivolta parafrasando un’altra strategia abbastanza famosa.

Non manca il fastidioso il cliché del poliziotto schivo e meditabondo che infila un bel pippone sul terrorismo e le sue cause – le guerre, le disuguaglianze, eccetera eccetera – da tenere in conto quando si giudicano i “terroristi”. Probabilmente Edel non ha voluto privarsi della presunzione di parlare all’oggi e acchittare un originalissimo parallelo tra la lotta armata rossa di allora e quella islamista di oggi, tanto più che il filoconduttore mediorientale era abbastanza ghiotto, visto che nel film si parla anche del breve soggiorno di Baader, Mahler e compagni in un campo di addestramento del FPLP in Giordania.

La parte finale del film racconta la carcerazione di Ulrike Meinhof, Andreas Baader, Gudrun Ensslin e compagni. Mostra un gruppo diviso, prostrato psicologicamente e fisicamente dalla prigionia, eppure ancora in grado – dalle quattro mura bianchissime di Stammheim – di attaccare frontalmente lo stato e i suoi rappresentanti usando l’aula del processo come tribuna, scatenare azioni di solidarietà  spettacolari, e in definitiva muovere una nuova generazione di giovani verso la lotta armata.
Le sequenze all’interno delle celle ordinatissime e lindissime del carcere speciale raccontano anche di uomini e donne che, tra pile ordinate di libri e appunti, discendono verso inferi di paranoia e claustrofobia. Ulrike Meinhof sarà  quella che soffrirà  di più del regime di isolamento: irriconoscibile già  dopo pochi mesi.

Alla fine, come si diceva, Edel presenta la versione ufficiale sulla fine di Ulrike Meinhof. Mettendola in bocca a una militante della RAF appena uscita dal carcere dona un crisma di verità a una storia che è ancora molto controversa. Ciononostante, attraverso le lunghe sequenze sui processi e sugli infiniti appelli per la scarcerazione firmati da intellettuali e artisti – segni di quel consenso sorprendente di cui godeva il gruppo in una parte della società tedesca – il film sembra voler suggerire (implicitamente? inconsapevolmente?) un’altra lettura dei “suicidi”. E cioè che il messaggio di questi uomini e (soprattutto) donne non si poté arrestare neanche seppellendoli vivi in un carcere costruito apposta. Bisognava che morissero il prima possibile, e i “suicidi” capitarono a fagiolo.

Due o tre cose che so di Ulrike Meinhof

un sasso scagliato contro una vetrina è un atto illegale. mille sassi contro altrettante vetrine sono un gesto politico —ulrike meinhof

disoccupate le strade dai sogni Lo spettatore avveduto dovrebbe procurarsi il buon Disoccupate le strade dai sogni, di Alois Prinz, edito da Arcana, che è – invece – una ricostruzione meticolosa della vita di Ulrike Meinhof. Un personaggio straordinario e incredibilmente moderno, arrivata alla lotta armata passando per la strada tortuosa della fede religiosa. Nata nell’anno in cui Hitler prese il potere e cresciuta nella Germania nazista, figlia di un pastore protestante, era animata da una rara sensibilità  e da un’idea esagerata di giustizia fin da piccola. Arriverà  a odiare con tutte le sue forze la guerra, gli uomini che l’avevano prodotta – uomini di cui la Repubblica Federale era ancora imbottita – e soprattutto la democrazia autoritaria di adenauer, il consumismo nascente e le coscienze addormentate e mostruose che esso produce (non a caso tra i primi bersagli della raf ci furono i nuovissimi megacentri commerciali). Perennemente tormentata dall’amore per le figlie e la scelta di non essere semplicemente una “moglie e madre”, constatando che la carriera giornalistica non era abbastanza per produrre il cambiamento radicale che sognava, sceglierà  di non vederle mai più per sacrificarsi a quella che credeva essere la battaglia definitiva per un mondo migliore.
Ulrike Meinhof era una figura di primissimo piano, come si dice, dell’intelligencija tedesca dell’epoca. Non soltanto dedita ai rinfreschi in giardino come apparirebbe dal film, ma impegnata nel movimento studentesco e “antagonista” fin dai primi anni dell’università . Una storia di radicalismo giovanile che non finirà  con la tessera di un partito di governo come per tanti suoi compagni (oppure molto peggio, come per alcuni altri), ma con una fune stretta al collo. La rivista Konkret, della quale la Meinhof era la firma di punta e che nel film di Edel rimane sullo sfondo, ha essa stessa una storia interessantissima: nata in seno al movimento studentesco, finanziata occultamente con i soldi della SED, era il centro dell’elaborazione politica e teorica della sinistra radicale della Germania Ovest. Quando la redazione si fece critica verso i compagni dell’Est questi tagliarono i fondi e Konkret, per mantenersi, cominciò a pubblicare donnine ignude e articoli pretestuosi su sesso e scandali. Fu a quel punto che la Meinhof lasciò, per usare la macchina da scrivere solo dopo aver finito col mitra.

/footnotes

  • un film sulle brigate rosse noialtri non siamo stati in grado di farlo (pare che invece nel frattempo purtroppo uno l’abbiamo fatto), e chissà  per quanto ancora.
  • il tedesco dovrebbe essere la lingua madre di tutti i rivoltosi del mondo

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